mercoledì 23 giugno 2010

cover #2: The Beatles - Helter skelter


Seconda delle mie (finora) 3 cover che ho registrato ad uso e consumo di me medesimo, Helter Skelter è sicuramente la canzone che mi ha preso meno tempo in fase realizzativa; voglio dire, il pezzo era già lì bello pronto ed arrangiato dai Beatles: potente, cattivo, serrato. Dal canto mio ho soltanto incattivito un pò tutto, dal riff, alla batteria, al mood generale.

Però mi mancava qualcosa: un assolo degno.

Io, che chitarrista non sono, a malapena sono riuscito a mettere su la base ritmica, ma per l’assolo non ci ho neanche voluto provare. Al che ho chiesto a colui il quale ritengo uno dei migliori chitarristi “who ever grace God’s green earth”, l’unico, il solo, l'incommensurabile Antonio Soncina, e lui cosa ha fatto? Non solo mi ha detto di sì, ma nel giro di un pomeriggio di assoli me ne ha mandati non uno, ma due! E così, buttando tutto nel pentolone e dando un paio di colpi di mestolo, è uscito fuori quello che potete ascoltare sotto.

P.S.: ad Antonio ho promesso di registrare la voce in un paio di suoi pezzi... e spero/prometto/giuro che prima o poi (spero PRIMA) lo faccio!


sabato 5 giugno 2010

review #01 | Pain of salvation - Road salt one (2010)


Ogni tanto vi posto qualche opinione su dischi che reputo meritevoli, non penso vi dispiaccia, no?

Quello di cui vi parlo adesso è sicuramente il mio primo candidato a disco del 2010, anche se siamo ancora a Giugno. I Pain of Salvation, per chi non li conoscesse, nascono come gruppo Prog Metal nel 1997 ma, album dopo album, il loro sound comincia a diventare sempre meno definibile fino ad arrivare a questo Road Salt One, disco in cui (finalmente, dico io) perdono del tutto l’accezione di metal band.

Sono sicuro che questo lavoro deluderà tantissime persone, dato che ormai i tempi di Entropia o The Perfect Element sono andati, e di molto!
Chi invece non ha i paraocchi si troverà davanti un disco splendido, assolutamente vissuto e da vivere, pieno di sfumature e ripieno di amore per i mai troppo rimpianti seventies.

Parlare in generale di un album così è impossibile, perciò mi butto in un track-by-track che spero abbiate la fortuna di seguire con l’album in sottofondo:


No way – già dall’inizio si capisce come i “nuovi” PoS abbiano un approccio differente al sound, seppure questo sia uno dei pezzi che più richiama il “vecchio stile”: pianoforte in battere e riff pesante in accompagnamento, ma stavolta c’è qualcosa di diverso. La distorione è leggera, la batteria è quasi senza riverbero, il tambourine diventa non sostegno ma base portante ed il basso col fuzz sporca e riempie. La melodia vocale, quella sì, è tipico stile PoS. Ti si stampa in testa e non se ne va più. Come sempre geniali nel break di tre quarti di pezzo, in cui gli strumenti seguono la voce sincopata eliminando di fatto la scansione del 4/4.


She likes to hide – prima incursione nei ’60; il pezzo sembra uscito da una jam tra Hendrix e Lennon, un blues un pò acido, ripieno di hammond e stacchi come piace a me. Testo decisamente Beatlesiano.


Sisters – la perla del disco. Un lento evolversi di una melodia malinconica da carillon triste, intervallata da un bridge che ha un nonsochè di Ryuichi Sakamoto, che pian piano cresce in intensità, mentre la voce di Gildenlow sfoga l’angosciosa rabbia in mezzo a cori che sembrano usciti da una colonna sonora di Morricone. Semplicemente da brividi.


Of dust – quasi un intermezzo di poco più di due minuti, basato su un unico giro armonico. Siamo dalle parti di “BE” (un loro precedente album). Anche qui grandiose le armonizzazioni vocali.


Tell me you don’t know – tra le mie preferite del disco. Si ritorna dalle parti dei Beatles (di firma McCartney stavolta però) con un blues allegro che ti fa muovere il piede sin dall’inizio. Il giro di accordi è sempre quello fin dagli anni ‘40 ma chi se ne frega, c’è più anima in questo pezzo che in tutta la discografia di Zucchero (per citare un bluesman-wannabe).


Sleeping under the stars – pezzo stranissimo. C’è dentro di tutto: Pink Floyd, Procul Harum, musica da circo... ci sento dentro pure Capossela, quindi figuratevi! L’inizio “circense” ed il cantato in doppia voce bassa/falsetto isterico fanno sembrare la canzone un divertissement, ma continuando con l’ascolto ci si accorge che il pezzo è decisamente molto più di quel che sembra. La parte centrale se possibile è ancora più strana, in pratica una decomposizione armonica del giro portante che bisogna sentire per capire. Il tutto, testo compreso, sembra una filastrocca della buona notte, anche se DECISAMENTE inquietante. E’ sicuramente tra i pezzi dell’album quello più facile da ricordare, e mica è un male.


Darkness of mine – sicuramente il pezzo meno riuscito del lotto. Una sorta di paesaggio sonoro raffigurante l’oscurità interiore. La melodia rarefatta non sarebbe neanche male, così come la sferzata dell’inciso, ma il tutto risulta troppo dilatato e poco coinvolgente.


Linoleum – primo singolo estratto dall’album, decisamente ingannatore. E’ infatti l’unico pezzo che rimanda al passato dei PoS, seppur alleggerito. Vivace, strofa in levare, bel ritornello, costruito a pennello insomma. come sempre ottima la prova di Daniel al microfono, capace di passare dal dolce al graffiato con una naturalezza che in pochi hanno.


Curiosity – veloce, diretto, tagliente. Strofa smorzata e ritornello alla carica, è un pezzo che si fa ricordare subito. Di solito è un male, dato che le canzoni con queste caratteristiche stancano presto, ma a me ancora non è successo, e qualcosa vorrà pur dire, no?


Where it hurts – inizio con un piccolissimo reprise di “sisters” che porta ad una melodia ed un’atmosfera che sanno tanto di “The wall”. Sofferto nell’interpretazione e nell’incedere, con un utilizzo riuscitissimo del Leslie nella voce, riesce a calarti nel tormento che vuole trasmetterti; il lungo respiro che inevitabilmente farete a fine canzone vi farà capire che il pezzo è andato a segno.


Road salt – Rhodes, Mellotron, Hammond, Voce, Stop. Potrei anche chiudere qui la descrizione del pezzo, ma sarebbe un’offesa ad una delle melodie più belle che abbia sentito in questi anni. Testo splendido, pieno di dubbi sui percorsi che si intraprendono nella vita, cantato e sentito da Daniel in maniera superba. Da ascoltare sdraiati e con gli occhi chiusi.


Innocence – pezzo conclusivo che si avvicina a certe cose di “Remedy Lane”, loro lavoro del 2002. Strofa calma che pian piano arriva ad un ritornello assolutamente spiazzante, che allunga l’unica parola del ritornello per tutta la durata dello stesso, sottolineandola soltanto con un reprise delle parole del bridge. L’effetto è abbastanza ipnotico e ad un primo ascolto anche un pò cacofonico, ma rientra tutto a posto già dalla seconda volta che lo si ascolta. Nel complesso finale un pò sottotono comunque.


In definitiva, è da un mese che ce l’ho nel lettore, e non vedo perchè non dovreste concedergli un ascolto, quindi chiudete questa pagina e procuratevelo SUBITO!